Agli antipodi dell’azzeccagarbugli

Agli antipodi dell’azzeccagarbugli

Modena 22 aprile 2011

C’è l’immagine folcloristica dell’avvocato callido, che offende la sua etica e la sua cultura. Chi parla dovrebbe possedere due doti: onestà e talento, raccomandava Catone il Vecchio al figlio. Sono le due qualità che danno vita a credibilità ed a reputazione. L’avvocato  che fa? Parla. Un’ingegnere redige un progetto  – direbbe Titta Madia – un commercialista redige un bilancio, un medico redige una ricetta. Un avvocato  lavora solo con le parole e sulle parole, come fa il filosofo, talora parlando un tanto all’ora. Nell’opuscolo i classici in prima persona (Mondadori 2006), Giuseppe Pontiggia rileva, da par suo, che anche “l’abilità dei politici è soprattutto verbale , e il problema politico è un problema essenzialmente verbale: come giustificare le inadempienze. Questo impiego immorale della retorica  si manifesta anche nelle cause civili e penali: noi vediamo responsabili di catastrofi che, grazie alla mediazione e all’argomentazione retorica, si giovano di una sostanziale impunità”. Non sappiamo come si sia conclusa l’antica disputa tra il discepolo che argomenta di non dovere comunque pagare il maestro di retorica finchè non abbia vinto la sua prima causa e lo stesso maestro il quale contro argomenta che deve pagarlo, sia che il giudice decida a favore sia che decida contro.
Questo celeberrimo e intrigante aneddoto “poggia su un’ interpretazione immorale, eticamente spregevole, dell’insegnamento retorico: tutti e due sanno bene come il maestro va ricompensato”. (ancora G. Pontiggia, Quando la retorica è immorale, Panorama, 16.3.2006, p. 195).
D’altro canto, per usare le parole di Pietro Calamandrei, “l’ufficio del difensore n non è quello di ricercare imparzialmente la verità ma quella di mettere in evidenza le ragioni del proprio cliente, ossia solamente quella porzione di verità che può giovare a far trionfare la sua difesa (a mettere in evidenza quell’altra porzione ci deve pensare l’avvocato avversario)” (Delle buona relazioni fra i giudici e gli avvocati, Firenze, Le Monnier, 1941, P.34).
Etica o retorica, questo è il problema. E’ una variante del dilemma responsabilità/libertà, che si pone quando si elabora o si espone un discorso (argomento su cui ho scritto interessanti pagine James Klumpp, autore del saggio Freedom and responsabilità in Constructing Public Life: Toward a Revise Ethic of Discours, “Argumentation”, vol. 11, 1997, pp. 113-130).
A dispetto delle visioni sbrigative che derivano da due visioni opposte e parimenti semplicistiche dell’avvocatura e della retorica, quella economiasta e quella disfattistica, etica ed avvocatura non sono in antitesi.
Da un lato abbiamo l’ideale per cui l’avvocato dovrebbe “arricchirsi senza spoliazione, accreditarsi senza cabala, innalzarsi senza favori, mantenersi senza bassezza … una gloria senza macchia, una reputazione senza confine, un merito senza invidia è la sua felicità e la sua perfezione” (Fyot de La Marche, L’ éloge et les devoirs de la profession d’avocat, 1713, p,. 28).
In breve, datemi un uomo perfetto e forse avrete un vero avvocato. Anche se tal La Marche scriveva di elogi e doveri, di denigrazione e diritti della professione d’avvocato nel secolo dei Lumi, i requisiti sono forse un po’ troppo esigenti.
Dall’altro, il frizzo popolareggiante fa talora dell’avvocato un bersaglio di complimenti poco lusinghieri, di critiche, di invettive, di scherno  e talora di risate, al pari del filosofo, che l’irridente serva di Tracia canzona, quando inciampa per voler guardare solo le stelle. Se si esibisce “soltanto listino prezzi, anziché un accettabile standard di qualità e di conoscenza”, qualche rischio si corre. Ma tra elegia e demonizzazione di sarà pure un mezzo giusto, anche se la servetta sopra menzionata ricorrerebbe alla canzonatura col proverbiale “la verità sta nel mezzo – diceva il diavolo seduto tra due avvocati.”
Una risposta decisa a questo semplicismo viene da un’opera fresca di stampa, da cui emerge la convinzione che i migliori avvocati sono quelli di cui i media non parlano quasi mai e che operano , con cultura e con responsabilità, con competenza ed efficacia, nel quotidiano scambio professionale, dialogico o polemico. A loro va tranquillamente rinnovata la “licenza di parlare” (e prima quella di ragionare/argomentare) a cui mira l’aggiornamento curato della Scuola Superiore dell’Avvocatura, indirizzato, con passione e con equilibrio,  con attenzione alla formazione intellettuale congiunta a costante cura del patrimonio professionale etico, dall’avvocato Alarico Mariani Marini.
<<Avvocato è chi “difende” in giudizio le persone che hanno una causa civile o sono state accusate di avere commesso qualche reato.
Per fare l’avvocato occorre essere laureati in giurisprudenza, completare un tirocinio biennale e superare, al termine del tirocinio, un esame di stato. Siffatta situazione è stata ritenuta  dall’Avvocatura del tutto  insoddisfacente e si sta procedendo  a una revisione della normativa che disciplina la materia al fine di ottenere una maggiore qualificazione degli avvocati e anche una riduzione del numero complessivo degli iscritti  … Nel modo usuale di concepire le cose, il binomio avvocato – giudice evoca una contrapposizione analoga a quella evocata dal binomio cane-gatto.
Si tratta di un equivoco culturale assai grave…>>.
Così, una decina d’anni fa, da magistrato, Stefano Racheli illustrava, con semplicità, al figlio questa figura legale, nella sua Lettera a Lorenzo (Paoline Editoriale Libri, Milano-Torino 1998, p. 112).
Anche l’avvocato Alarico Mariani Marini è impegnato, da oltre un decennio, in questa sfida: appassionato e competente promotore della ricerca ei della pratica dell’argomentare nel campo dell’avvocatura;: per lui l’argomentazione non è u operazione che si compie nel retrobottega o nel retrocucina, ma è il piatto flambè, che si cuoce e si porta in tavola a fiamma viva. C’era una volta  l’uso di titolare polemicamente i libri “Contro…” (un indirizzo di pensiero o una persona). Il “contro” è rivelatore di una vocazione alla controversia associata ad una disposizione apologetica, oggi apparentemente venuta meno, essendo venute meno non le occasioni di disputa ma molte certezze ed alcune intolleranze.
Mariani Marini ha appena pubblicato un’opera che è nel contempo pro e contro: Agli antipodi dell’azzeccagarbugli, un volume dal titolo sicuramente provocatorio e vivace, a cui corrisponde un contenuto altrettanto effervescente.
In reazione al manzoniano leguleio da strapazzo, intrigante – quello a cui Renzo chiede vanamente aiuto contro don Rodrigo, quello che “all’avvocato bisogna raccontare le cose chiare: a noi tocca poi d’imbrogliarle… perché vedete, a saper ben maneggiar le gride, nessuno è reo e nessuno innocente” – il sottotitolo annuncia: Cultura ed etica dell’avvocato.
Contro l’avvocato si è detto e pensato di tutto. Nei sondaggi questa figura professionale rischia di affiancarsi, quanto a stima, ai venditori di auto usate, anzi “ex nuove”, per ricorrere ad un espediente da “tattico della furberia, specialista delle schermaglie subdole” (P. Calamandrei, Delle buone relazioni tra i giudici e avvocati, Firenze, Le Monnier 1941, p.97), da azzeccagarbugli, appunto. L’opera di Mariani Marini esce nella collana Law and Argumentation, un laboratorio di metodologia giuridica diretto da Umberto Vincenti, e raccoglie ventisei saggi redatti nell’ultimo decennio.
Gli interventi, variegati e pregnanti, sono raggruppati sotto cinque capitoli: 1. Il discorrere dell’avvocato: 2. La formazione del giurista pratico; 3. Etica deontologia e responsabilità sociale; 4. Professione, società mercato; 5. Avvocati e magistrati: una formazione comune? Sotto la prima voce sono esaminate le strategie nella redazione dell’atto difensivo , il ragionamento dell’avvocato, le tecniche dell’argomentazione nel discorso giuridico, l’arte di parlare e, con bella  metafora, i fossili lessicali e sintattici dei testi giudiziari e forensi, per concludere con la razionalità e l’etica nella parola dell’avvocato.
La seconda sezione formativa comprende: l’immagine offerta dalla professione dell’avvocatura ai giovani; l’incerto percorso dall’università alla professione forense; come formare il giurista; una reprimenda su un nuovo esame (da buttare). Il terzo capitolo include la trattazione della responsabilità sociale dell’avvocato e dell’etica del “giusto processo”;
una riflessione all’insegna del “più società, meno corporazione” per superare la crisi della funzione disciplinare; la scoperta dell’etica negli affari; l’avvocato e i cittadini senza potere; la difficile ricerca di regole comuni nel campo della deontologia forense in Europa; deontologia e responsabilità sociale: l’avvocato e il minore: ancora, con una efficace immagine, “il dio degli avvocati e il dio dei mercanti”. Le sfide  dell’avvocatura nella società del mercato; gli ordini professionali come salvarli e come perderli, unitamente al problema dell’efficacia della garanzia verso la collettività sono i temi del capitolo quarto. Infine il problema di una formazione comune o congiuntiva di avvocati e magistrati e le scuole di specializzazione per le professioni legali, con tutti i relativi dubbi e le prospettive, sono temi riservati al quinto capitolo conclusivo, sulla base anche della dichiarazione di Roma sulla formazione dell’avvocato in Europa.
L’intento di Mariano Marini è di fornire direttrici operative perché l’avvocato non parli obbligatoriamente in legalese, non argomenti in cavillese (lo scanzonato Eco dirbbe: scenda dalla sua “Cavillac” e cambi automobile), non si comporti furbescamente, si formi e si aggiorni costantemente.
Remo Danovi nel suo coraggioso, pungente ed autoironico  L’immagine dell’avvocato e il suo riflesso (Giuffrè, 1995), ha raccolto “il diritto e il rovescio” dell’avvocato; virtù e apprezzamenti poco lusinghieri, in prosa e in versi, alternando giudizi negativi e positivi, l’essere percepito ed il dover essere ideale.
Anche nel diritto come in filosofia, esse est percipi.
Recita il motto popolare: “la giustizia non solo deve essere fatta, ma deve anche apparire fatta”.
Ora l’essere e la realtà dell’avvocato sono talora percepiti e rappresentati, per rifarsi alle otto coppie di valori ideali/disvalori fattuali, trattate con spirito brioso dell’avvocato Danovi nel suo spassoso e non convenzionale volume, sotto la species dell’inefficacia, dell’inadeguatezza, della doppiezza, della connivenza, della cavillosità, dell’avidità, della prepotenza contrapposti ad un dover essere che rimanda invece a necessità, capacità, fedeltà, indipendenza, onestà, eloquenza, equo “onorario” (nome ben scelto) risultato risolutivo.
Prendiamo, con animo sereno, alcuni di questi luoghi comuni tratti dalle facezie, dotte o popolari, collezionate da Danivi, e mettiamoli a confronto con l’immagine che dell’avvocato offre il volume lucido e concreto di Mariani Marini. Indicativi di lucidità e concretezza sono, ad esempio, gli incipit dei singoli saggi: “Ragionare è il mestieri  dell’avvocato” (p.17) “la parola è uno strumento essenziale dell’avvocato” (p.38); “come parlano e scrivono giudici e avvocati”(p.44); “uno dei principali problemi dell’avvocatura italiana sono i giovani” (p.55);
“Nel mondo della finanza e degli affari sembra … auspicato un ritorno all’etica, anche se non sempre l’appello è partito da pulpiti immacolati” (p.132); “Il dio degli avvocato non può essere lo stesso dio dei mercanti” (p.157), “Magistrati e avvocati concorrono entrambi … all’interpretazione e all’applicazione del diritto ai casi concreti della vita” (p.187).
All’affermazione disincantata di Jean Giradoux per cui “nessun poeta ha mai interpretato la realtà tanto liberamente quando un avvocato interpreta la verità” (La guerre de Troie n’aura pas lieu, 1935), l’autore affianca e oppone la riflessione per cui “la legge non essendo tutto il diritto, la scelta tra le varie interpretazioni possibili va collocata in un ampio orizzonte formato dai diritti fondamentali, dall’esperienza giuridica, dal diritto vivente e , il che non guasta, dal senso di giustizia universalmente condiviso” (p.40).
Contro l’avvocato che ha sempre fretta, come lamenta Platone nel Teeto, egli segnala la inderogabile necessità di trovare il tempo per colmare i ritardi nel campo della formazione (p.73 e p. 152). Alla doppiezza cavillosa del tentennante leguleio che operava su quel lago di Como, egli contrappone un nuovo modello  di formazione dell’avvocato lungo quattro direttrici: 1. La ricerca: logica, metodologica e informazione; 2. La comunicazione: scritta e orale, argomentazione e persuasione; 3. La condotta: comportamenti professionali e processuali, mediazione e negoziazione; 4. La cultura : lettura fattuale e comprensione, anche sociologica e psicologica, delle dinamiche e degli scenari (p.109).
Contro quelli che chiama “i fossili lessicali”, egli suggerisce un diverso parlare e scrivere di giudici e di avvocati che eviti non solo le elocuzioni inutilmente auliche o burocratiche, ma soprattutto le espressioni gergali, opache, elusive che spesso sono nel contempo effetto e indizio di pensiero disorganico.
In breve, Agli antipodi dell’azzeccagarbugli propone un paradigma di formazione globale per l’avvocatura, secondo il progetto che da un decennio l’autore persegue in seno al Consiglio Nazionale forense. E’ decisamente un opera azzeccata ed esente da garbugli.

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