Ci sono storie silenziose che si muovono nelle stanze di case dove ciò che erroneamente viene chiamato amore lascia i segni sulle pareti, nei frantumi degli oggetti scagliati a terra, sulla pelle e negli occhi delle donne, fino a penetrarle in profondità, laddove non si vede. Ci sono storie rumorose, che si muovono nelle stanze di case dove ciò che comunemente si chiama amore urla insulti e fa tremare i vetri. Ci sono storie visibili e invisibili, taciute e nascoste che sanno di vergogna, smarrimento, dolore per il fallimento di una relazione, paura di non essere credute, paura di non essere protette, paura di perdere i propri figli. Sono storie che attraversano gli anni e le generazioni mentre il termine che le accomuna resta immutato: violenza.
La violenza nei confronti delle donne è un fenomeno endemico, presente a tutte le latitudini, tuttavia, gli stereotipi che esistono intorno a questo fenomeno portano spesso a ritenere che si riscontri solo tra le fasce più vulnerabili della popolazione. In realtà, le statistiche dimostrano il contrario: secondo i dati rilevati da ISTAT, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della propria vita almeno una forma di violenza. Il dato è trasversale a tutte le regioni, le classi socioeconomiche e il livello di istruzione. In effetti, tra le vittime di violenza non vi sono distinzioni di titolo di istruzione o livello socioeconomico, che invece determinano la possibilità di uscire dal circolo della violenza rendendosi indipendenti (Save The Children, 2024).
In particolare, la violenza domestica colpisce nella maggioranza dei casi le donne, e quando queste sono madri anche i loro figli diventano vittime di maltrattamento in quanto testimoni di violenza. Un’indagine del 2021 condotta dall’Agia, Cismai e Terres des Hommes, ha messo in evidenza come il 32,4% dei bambini presi in carico dai servizi sociali assistono alla violenza sulle loro madri, dato che configura la violenza assistita nei confronti dei minorenni in Italia come la seconda forma di maltrattamento dopo la patologia delle cure (Save The Children, 2024).
Secondo uno studio che ha aggregato i dati del 2021 e del 2022 (fino al primo trimestre) la principale violenza subita dalle donne è generalmente di tipo fisico; segue la violenza di natura psicologica, sessuale, e le minacce. Nella maggior parte dei casi le violenze avvengono all’interno della propria abitazione e consistono in ripetuti episodi nel corso dei mesi e degli anni. Secondo i dati raccolti dallo studio, solo in 129 casi di 2.966 la chiamata al numero antiviolenza è seguita a un unico episodio. Del resto, sono anche molti i casi in cui una violenza subita non si traduce in una denuncia formale; nei primi mesi del 2022, ad esempio, meno del 13% ha denunciato. Tra i motivi più frequenti vengono segnalati il non voler compromettere la famiglia e la paura nei confronti del soggetto violento. Va specificato che questi dati vanno letti in relazione alla presenza di figli nel nucleo famigliare (Openpolis, 2022). La casistica più frequente è quella in cui la vittima con figli indica che questi non hanno subito direttamente la violenza, ma hanno assistito a quella perpetrata. Seguono i casi in cui i figli sono vittime e testimoni della violenza nei confronti del proprio genitore. Le conseguenze per questi sono spesso l’inquietudine, l’aggressività, comportamenti adultizzati di accudimento verso i familiari e disturbi del sonno (Openpolis, 2022).
L’evoluzione della normativa italiana in materia di violenza sulle donne prende le mosse dalla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (legge n. 77 del 2013) (Parlamento Italiano, 2024). In seguito alla ratifica l’Italia ha compiuto una serie di interventi mirati a istituire una strategia integrata per combattere la violenza. Il primo è stato operato dal decreto-legge n.93 del 2013 che ha apportato modifiche in ambito penale e processuale e ha previsto l’attuazione di misure contro la violenza di genere. Il provvedimento più incisivo è la legge n.69 del 2019 (c.d. Codice Rosso) che ha rafforzato le tutele processuali delle vittime di violenza sessuale e domestica e ha introdotto alcuni nuovi reati nel codice penale quali: il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e quello di costrizione o induzione al matrimonio. ll Codice Rosso ha cercato di rispondere alla necessità di protezione immediata per le vittime, accelerando i tempi di intervento delle autorità e offrendo strumenti legali più incisivi contro i maltrattanti. Tuttavia, nonostante l’importanza di questo provvedimento, resta ancora molto da fare. Infatti, il Codice Rosso ha portato a un aumento delle denunce, ma non sempre queste si traducono in una protezione effettiva per le vittime. Troppo spesso le donne si trovano ad affrontare un sistema giudiziario che, pur dotato di leggi più severe, può risultare inefficace a causa di ritardi burocratici, mancanza di coordinamento tra le istituzioni e una persistente cultura di scetticismo verso le vittime. Ci sono stati numerosi casi in cui le misure previste dal Codice Rosso non sono state applicate con la dovuta celerità, lasciando le vittime esposte a ulteriori rischi. Pertanto, è fondamentale che tutte le parti coinvolte – dalle forze dell’ordine ai giudici, dai servizi sociali agli operatori sanitari – siano adeguatamente formate e sensibilizzate e siano in grado di riconoscere immediatamente i segni della violenza, di intervenire prontamente e di offrire un sostegno continuo e coordinato.
Anche la legge n.134 del 2021 ha previsto un’estensione delle tutele per le vittime di violenza domestica e di genere, mentre la legge n.53 del 2022 ha potenziato la raccolta di dati statistici sulla violenza di genere attraverso un maggiore coordinamento di tutti i soggetti istituzionali coinvolti. Nella legislatura corrente sono state approvate la legge n.168 del 2023 che ha apportato modifiche al fine di rendere più efficaci le misure di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne, la legge n.12 del 2023 che prevede l’istituzione di una Commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio, e la legge n. 122 del 2023 che obbliga il pubblico ministero di assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato entro tre giorni dall’iscrizione della notizia (Parlamento Italiano, 2024).
È indubbio che il sistema di gestione e protezione a favore delle vittime di violenza siano evoluti negli anni al fine di proteggere le vittime, tuttavia, accade che lo stesso sistema generi risultati fallimentari. Molti centri antiviolenza, ad esempio, hanno verificato che nei percorsi legali, sanitari e dei servizi sociali accade spesso che non siano riconosciuti i presupposti della violenza, che si metta in discussione la parola della donna o che le sue scelte di vita vengano giudicate. Queste azioni hanno come risultato quello di trasmettere al maltrattante un senso di impunità, colpevolizzando la donna per la violenza subita. È stato notato, inoltre, che molti operatori istituzionali assumono che entrambi vittima e maltrattante abbiano dei problemi ed elaborano un sistema di indagine e controllo sulla genitorialità, ritenendola discutibile per entrambi. In questo caso vengono attivate pratiche e protocolli di intervento tra istituzioni prima di ascoltare la donna e di invitarla a recarsi presso un centro antiviolenza.
Secondo il CADMI (Casa delle Donne Maltrattate, 2024) la non conoscenza degli effetti che la violenza produce sulle donne induce diversi operatori istituzionali a giudicarle negativamente, a disporre un allontanamento dal loro contesto di vita e a imporre percorsi non autodeterminanti della donna che la fanno sentire in una posizione subalterna che la rende passiva; ossia, altri decidono per lei cosa le serve e cosa deve fare sulla base di presupposti e scelte su cui la donna non ha alcun potere decisionale.
A questo proposito, nel febbraio del 2022 lo Studio Legale Miraglia depositò una querela per falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, per false dichiarazioni all’autorità giudiziaria, abuso di ufficio, lesioni personali e violenza privata a carico di una donna vissuta in un contesto di vita violento insieme ai suoi due figli. Di fatto, la distorsione della realtà mascherando elementi importanti nei confronti di alcuni soggetti coinvolti ed evidenziando, invece, nei confronti della donna elementi non attinenti al vero, avevano causato l’allontanamento fisico ed emotivo tra la donna e i suoi figli generando situazioni di profonda sofferenza per entrambe le parti.
Questo è uno dei casi limite che sottolinea la necessità per l’apparato istituzionale di promuovere tra i suoi membri l’utilizzo consapevole di uno strumento chiave per la buona riuscita del loro lavoro: l’ascolto.
Ascoltare una donna che ha vissuto violenza domestica significa concederle del tempo e permetterle di raccontare le sue verità, senza interferire. In questa fase l’ascoltatore è un foglio bianco che aspetta di essere scritto dalla voce del narratore.
Ascoltare significa anche leggere la storia del narratore tra le righe, e rintracciare gli indicatori (psicologici, comportamentali, fisici) della persona. Tra gli indicatori psicologici vi sono paura, stress, attacchi di panico, depressione, perdita di autostima, agitazione, auto colpevolizzazione; tra quelli comportamentali troviamo racconti incongruenti relativi alle violenze fisiche subite, chiusura o isolamento sociale; infine, tra gli indicatori fisici vi sono ferite, contusioni, danni permanenti, aborti spontanei e disordini alimentari.
Le donne che hanno vissuto episodi di violenza domestica, abusi e altri tipi di soprusi hanno diritto all’ascolto come parte fondamentale e integrante della presa in carico del loro caso, sia dal punto di vista psicologico che da quello giuridico. È un processo che richiede sensibilità, conoscenza e un approccio multidisciplinare, pertanto, è necessario sensibilizzare la società e soprattutto i professionisti in ambito giuridico e psicologico affinché siano preparati alla pratica dell’ascolto e possano condividere le loro conoscenze ed esperienze al fine di promuovere pratiche più rigorose che siano in linea con i veri interessi delle donne, come di tutti gli individui che hanno subito, o subiscono, violenza. In definitiva, se da un lato esiste un apparato giudiziario che rafforza le capacità di intervento delle forze dell’ordine e inasprisce le pene in supporto alle vittime di violenza, dall’altro questo approccio consolidatosi nel tempo non è sufficiente a limitare efficacemente un fenomeno così strutturale. È imprescindibile, dunque, cambiare il paradigma sociale e culturale in cui è radicato questo fenomeno. Per questo servono strategie a lungo termine e soprattutto interventi formativi in ogni sfera della società. Infatti, solo riconoscendo che il fenomeno della violenza non è imputabile a casi isolati dovuti a situazioni eccezionali di disagio psicologico e sociale, ma è prettamente strutturale si potranno definire pratiche più coerenti che riflettano e proteggano i veri bisogni psicologici e giuridici delle persone che vivono in contesti di vita violenta.
La violenza di genere non è solo un problema sociale, è una ferita aperta nel cuore della nostra umanità, una tragedia che si consuma ogni giorno nelle stanze silenziose di migliaia di case. Come avvocato che ha dedicato la propria vita alla difesa dei diritti delle donne e dei bambini, ho avuto il privilegio e il dolore di assistere in prima linea alla battaglia contro questo flagello. Ogni caso che affronto non è solo un numero nelle statistiche, ma una storia viva di sofferenza, coraggio, e una resistenza che sfida ogni comprensione.
Non dimenticherò mai le lacrime delle madri che ho difeso, il terrore nei loro occhi e la loro determinazione a proteggere i propri figli, anche a costo della propria vita. Queste donne non sono solo vittime, sono eroine, combattenti in una guerra invisibile, costrette a lottare contro i loro aguzzini e contro un sistema che dovrebbe proteggerle ma che troppo spesso le tradisce. Ogni volta che una di queste donne trova il coraggio di alzare la voce, di chiedere aiuto, di dire “basta”, è un atto di straordinario eroismo. Ma è inaccettabile che debbano affrontare questa battaglia da sole, con una società che le guarda con sospetto, le giudica, le condanna a un silenzio forzato.
La mia battaglia contro la violenza di genere è anche una battaglia personale. Ho visto come il sistema può fallire, come le istituzioni possano ignorare o addirittura colpevolizzare chi cerca aiuto. Ho assistito a casi in cui le vittime sono state ulteriormente ferite da chi avrebbe dovuto proteggerle. Come uomo e come avvocato mi sento profondamente oltraggiato da ogni singola storia di violenza che mi viene raccontata e mi sento investito di una missione: quella di combattere per la giustizia, per il riconoscimento dei diritti, per una società in cui nessuna donna debba più vivere nella paura. La mia esperienza mi ha insegnato che la legge, pur essendo uno strumento potente, non è sufficiente da sola. Non basta punire i colpevoli, dobbiamo anche educare, prevenire, sensibilizzare. Dobbiamo insegnare ai nostri figli il rispetto, l’uguaglianza, la dignità di ogni essere umano. Dobbiamo smantellare gli stereotipi di genere, combattere la cultura del possesso e del controllo che alimenta la violenza. Dobbiamo costruire una società in cui le donne possano sentirsi sicure, supportate, credute.
Ogni giorno mi impegno affinché le voci delle donne che difendo vengano ascoltate. Ogni vittoria in tribunale e ogni volta che una donna trova il coraggio di parlare mi dà la forza di continuare, ma so anche che la strada è lunga e piena di ostacoli. Il sistema spesso fallisce, i pregiudizi sono radicati e il cambiamento è lento; tuttavia, la determinazione delle vittime e il loro spirito indomabile mi ispira ogni giorno a non arrendermi. La mia speranza è che, un giorno, non ci sarà più bisogno di combattere questa battaglia, che le donne possano vivere in una società che le protegge e le valorizza. Ma fino a quel giorno, continuerò a lottare al fianco di tutte le donne e i bambini che hanno bisogno di aiuto, giustizia e un futuro migliore.
Infine, un altro aspetto che merita attenzione è la strumentalizzazione delle denunce. Purtroppo, ci sono casi in cui le accuse di violenza vengono utilizzate in modo strumentale per motivi economici o per ottenere l’affidamento dei figli. Questo non solo distorce la realtà e complica ulteriormente la vita delle vere vittime di violenza, ma mina anche la credibilità del sistema giudiziario e il suo obiettivo di protezione.
In conclusione, la lotta contro la violenza di genere richiede più di leggi e pene severe; necessita di un cambiamento radicale nella nostra cultura e mentalità. Ogni storia di violenza è una ferita aperta nella nostra società, un grido di aiuto che non può rimanere inascoltato. Dobbiamo costruire un mondo in cui le donne possano vivere senza paura, in cui ogni voce venga ascoltata e rispettata. Solo con un impegno collettivo possiamo sperare di sanare queste ferite e offrire un futuro sicuro e dignitoso a tutte le donne e ai loro figli. La vera giustizia inizia dall’ascolto e dalla comprensione; solo così potremo trasformare il dolore in speranza e il silenzio in una potente dichiarazione di cambiamento.
Francesco Miraglia
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Brescia, 13 luglio 2024 – Il Tribunale per i minorenni di Brescia ha recentemente emesso una sentenza che segna un punto di svolta in una vicenda complessa e controversa. Una sedicenne, Roberta (nome di fantasia), è stata finalmente autorizzata a tornare a vivere con i suoi familiari, dopo un lungo periodo trascorso in una struttura protetta. Questa decisione ha messo in luce diverse problematiche legate alla gestione della tutela dei minori da parte delle autorità locali.
Tutto è iniziato all’inizio del 2023, quando Roberta si è rifiutata di tornare a casa dal padre a causa di un grave episodio di conflitto familiare. Le autorità, ritenendo non idonea anche la residenza della madre, hanno deciso di collocare la ragazza in uno “spazio neutro”. Questo termine, apparentemente innocuo, indica una struttura dove i minori possono incontrare i genitori sotto stretta sorveglianza, in un ambiente considerato sicuro e imparziale.
Gli operatori dei servizi sociali hanno sostenuto questa decisione, evidenziando quelle che hanno definito “importanti fragilità” della ragazza. Tuttavia, con il passare del tempo, queste fragilità sono apparse sempre più come un pretesto per giustificare una misura drastica e forse non necessaria.
Dopo un anno e mezzo di permanenza forzata nella struttura, il Tribunale per i minorenni ha rivisto il caso di Roberta, concludendo che la ragazza poteva tornare a vivere con la sua famiglia. La corte ha infatti riscontrato che le fragilità di Roberta erano state probabilmente esagerate e che la residenza della madre, inizialmente considerata inidonea, era in realtà un ambiente sicuro.
Questa sentenza ha aperto un dibattito sulle pratiche adottate dai servizi sociali. L’avvocato della famiglia, Miraglia, non ha risparmiato critiche e ha lanciato un grido d’allarme:
“La recente decisione del Tribunale di Brescia mette in luce le gravi carenze e le disfunzioni all’interno del sistema di tutela minori. È inaccettabile che procedure affrettate e interessi economici possano prevalere sul benessere dei minori. Questo caso dimostra la necessità urgente di una riforma profonda e di un controllo rigoroso delle pratiche adottate dai servizi sociali.”
Miraglia ha sollevato una questione cruciale: il ruolo degli interessi economici nelle decisioni riguardanti la tutela dei minori. In un sistema dove le cooperative e i professionisti coinvolti nella gestione dei minori possono trarre profitti, è fondamentale garantire che le decisioni prese siano esclusivamente nel miglior interesse dei bambini.
Il caso di Roberta non è isolato. Ogni anno, migliaia di minori vengono allontanati dalle loro famiglie e collocati in strutture protette, spesso con motivazioni discutibili. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel 2022 sono stati oltre 30.000 i minori affidati ai servizi sociali, con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente. Gli allontanamenti forzati avvengono generalmente in situazioni di presunto pericolo per il minore, ma molte famiglie e avvocati sostengono che queste decisioni sono talvolta prese in modo affrettato e senza una valutazione approfondita delle circostanze.
Le motivazioni alla base degli allontanamenti sono spesso complesse e variegate. Possono includere abusi fisici o psicologici, trascuratezza, dipendenze dei genitori, violenza domestica o condizioni abitative inadeguate. Tuttavia, vi sono casi in cui le ragioni non sono così chiare e le decisioni vengono prese su basi di interpretazioni soggettive o rapporti insufficienti.
La procedura di allontanamento di un minore inizia generalmente con una segnalazione ai servizi sociali. Questa può provenire da scuole, medici, vicini di casa o dalla stessa famiglia. Una volta ricevuta la segnalazione, i servizi sociali avviano un’indagine per valutare la situazione familiare. Se ritengono che il minore sia in pericolo, possono richiedere un intervento immediato che, in molti casi, comporta il collocamento in una struttura protetta.
Gli effetti psicologici degli allontanamenti forzati possono essere devastanti per i minori. Studi psicologici hanno evidenziato che i bambini allontanati dalle loro famiglie possono sviluppare disturbi emotivi e comportamentali, tra cui ansia, depressione e problemi di attaccamento. La separazione dalla famiglia, specie se non necessaria, può compromettere il loro sviluppo emotivo e sociale.
Il caso di Roberta ha evidenziato la necessità di una riforma profonda del sistema di tutela dei minori. Gli esperti sottolineano l’importanza di adottare misure che garantiscano trasparenza e responsabilità, assicurando che il benessere dei bambini sia sempre al centro delle decisioni. Tra le proposte di riforma, vi è l’istituzione di un organismo indipendente di supervisione che possa valutare le decisioni dei servizi sociali e assicurare che vengano rispettati i diritti dei minori e delle loro famiglie.
Per Roberta e la sua famiglia, la decisione del Tribunale rappresenta una vittoria. La madre di Roberta, visibilmente commossa, ha espresso la sua gratitudine: “Finalmente, dopo tanto dolore, mia figlia può tornare a casa. Speriamo che nessun’altra famiglia debba passare ciò che abbiamo vissuto noi.”
La vicenda di Roberta ha sollevato interrogativi cruciali sulla gestione della tutela dei minori a Brescia e oltre. È chiaro che è necessario un controllo più rigoroso e una maggiore trasparenza nelle decisioni che riguardano i minori. Le autorità devono riflettere su questa vicenda e adottare misure per garantire che tutti i bambini possano crescere in un ambiente sicuro e protetto, senza essere vittime di decisioni affrettate e potenzialmente dannose.
Questo caso rappresenta non solo la fine di un calvario per una giovane ragazza, ma anche un richiamo alla necessità di riforme strutturali per proteggere meglio i nostri minori in futuro.
La Legge 206/2021, più nota come riforma Cartabia, ha rivoluzionato il processo di famiglia cercando di modellare gli istituti processuali alle problematiche concrete determinate dalla crisi di un nucleo familiare. Tra i problemi più evidenti nella fase post-separazione, ad esempio, c’è la difficoltà degli ex-coniugi di concordare orari e luoghi delle attività dei propri figli e, più in generale, le scelte educative da portare avanti nell’interesse dei minori. Lo strumento utilizzato per ovviare a questa difficoltà è il piano genitoriale (art 473 bis.12 ultimo comma c.p.c.) introdotto dalla riforma Cartabia, che deve essere allegato al ricorso e che indica gli impegni e le attività quotidiane dei figli relativi al percorso educativo, alla scuola, alle attività extrascolastiche, alle frequentazioni abituali e alle vacanze normalmente godute. In caso di discordanza tra i piani dei genitori, il giudice “può formulare una proposta di piano genitoriale tenendo conto di quelli allegati dalle parti”. L’accettazione del piano proposto dal giudice obbliga le parti a osservarne il contenuto. Il mancato rispetto delle condizioni, infatti, costituisce un comportamento sanzionabile con le misure previste dall’art.473-bis.39.
È importante che il piano genitoriale venga inteso in primo luogo come un’occasione di riflessione da parte dei genitori per ripensare a come vivere il loro nuovo status di genitori post-separazione o divorzio, e in secondo luogo come un progetto sull’esercizio della responsabilità genitoriale.
In questo contesto, la riforma Cartabia ha assegnato ampio spazio alle ADR (Alternative Dispute Resolution), un insieme di tecniche quali l’arbitrato, la mediazione civile, il negoziato e la mediazione familiare che si propongono come strumenti di risoluzione alle controversie alternativi al procedimento giudiziale ordinario.
In particolare, la riforma prevede al comma 23, lettera ee, la facoltà per il Giudice di nominare un professionista che offri supporto al Giudice nel superamento dei conflitti, nell’ausilio dei minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni tra i genitori e i figli. Nello specifico, la riforma prevede che queste figure professionali – formatisi ai sensi della legge 4/2013 – abbiano specifiche competenze in materia di diritto di famiglia, minori e violenza domestica, e abbiano l’obbligo di interrompere la mediazione familiare qualora emergano forme di violenza.
Nella legge non si fa menzione specifica alla Coordinazione Genitoriale, ma il riferimento a questa tecnica di risoluzione al conflitto è chiaro.
Come definito dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia, la coordinazione genitoriale
è un processo di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. ADR) centrato sul bambino attraverso il quale un professionista della salute mentale o di ambito giuridico, con formazione ed esperienza nella mediazione familiare, aiuta i genitori altamente conflittuali ad attuare il loro piano genitoriale, facilitando la risoluzione delle controversie in maniera tempestiva, educandoli in merito ai bisogni dei loro figli e, previo consenso delle parti e /o del giudice, prendendo decisioni all’interno dell’ambito dell’ordine del tribunale o del contratto di incarico ricevuto. L’obiettivo globale della coordinazione genitoriale è assistere i genitori con alto livello di conflitto ad attuare il loro piano genitoriale, monitorare l’osservanza dello stesso, risolvere tempestivamente le controversie riguardanti i loro figli e l’attuazione del piano genitoriale nonché proteggere, salvaguardare e preservare una relazione genitore-bambino sicura, sana e significativa. La coordinazione genitoriale è un processo di risoluzione alternativa delle controversie incentrata sulla tutela della salute, che integra la valutazione, l’educazione, la gestione del caso, la gestione del conflitto e, talvolta, integra funzioni decisionali (Ordine Psicologi Lombardia, 2024).
La coordinazione genitoriale si applica a un sistema familiare nel suo insieme, sia come famiglia separata, che come famiglia ricostituita o allargata. Promuove il dialogo tra le figure professionali che appartengono a diversi ambiti quali l’ambito psicologico, giuridico e sociale affinché i genitori possano essere coadiuvati nelle scelte che riguardano i figli e nell’applicazione di quanto prevedono le disposizioni emesse dall’Autorità Giudiziaria.
La figura di un Coordinatore Genitoriale è necessaria in casi in cui la mediazione familiare non ha avuto successo, quando ai figli viene negato il contatto fisico e/o emotivo con un genitore e quando il conflitto si rivela persistente, pervasivo e intenso, vale a dire caratterizzato da aggressività e sentimenti di ostilità che fanno sì che la coppia non raggiunga alcun accordo.
L’incarico del Coordinatore può aver luogo sia da parte del tribunale, sia su incarico delle parti. La durata dell’incarico è di sei mesi rinnovabili fino a un massimo di ventiquattro (CO.ME.TE., 2024)
L’efficacia e l’importanza della coordinazione genitoriale è un tema verso il quale occorre sensibilizzare tutti i professionisti che ruotano intorno alle famiglie in conflitto. Un approccio multidisciplinare e collaborativo, infatti, permetterà di gestire i conflitti in maniera più organizzata e costruttiva.
L’efficacia della coordinazione genitoriale è già evidente in molti casi. Nell’ordinanza nella causa civile iscritta al n.52678/2021 V.G., ad esempio, lo Studio Miraglia ha riscontrato ottimi risultati a seguito di un processo di coordinazione genitoriale che ha aiutato i genitori nella creazione di un rapporto più collaborativo e aperto a trovare soluzioni che prendessero in considerazione il benessere del figlio. Inoltre, la sentenza fornisce una dimostrazione empirica di come i molteplici aspetti che spesso i genitori in conflitto insistono nel voler portare nel giudizio possano essere spostati in altri ambiti di risoluzione che garantiscano l’effettiva presa in carico e successivamente la concreta risoluzione del conflitto.
In questo senso, la riforma Cartabia apporta notevoli cambiamenti che si presentano come strumenti volti a conferire maggiore efficienza nei procedimenti relativi alle persone e alla famiglia.
Francesco Miraglia
REFERENZE
Ordine Psicologi Lombardia (2024), “La Coordinazione Genitoriale”. Disponibile al seguente link: https://www.opl.it/public/files/11516-Appendice_Coordinazione_Genitoriale_definizione_obiettivi_2018.pdf
CO.ME.TE – Associazione Nazionale (2024), “La Riforma Cartabia e il processo di famiglia: le tecniche alternative alla risoluzione del conflitto”. Disponibile al seguente link: https://www.comete-nazionale.it/la-riforma-cartabia-e-il-processo-di-famiglia-le-tecniche-alternative-alla-risoluzione-del-conflitto/
In una serata che permette di essere non solo un evento culturale ma un vero e proprio viaggio nel cuore dell’umanità, la libreria “Libro Amico” di Reggio Calabria si prepara ad accogliere la comunità per la presentazione del libro “Ci sono anch’io: La disabilità è una dimensione della diversità umana.
Quest’opera che si dipana attraverso le pagine scritte con dedizione e sensibilità da Daniela Maria Vita e Francesco Miraglia, sarà al centro di una serata di riflessione il prossimo 8 maggio 2024.
Questo importante volume, esplora le molteplici facce della disabilità, trattando il tema non solo come una questione di diritti ma anche come una profonda espressione della diversità umana. Il libro si propone di sfidare i pregiudizi e di aprire un dialogo costruttivo sull’ inclusione e sul valore delle differenze all’interno della nostra società.
La presentazione vedrà la partecipazione di una serie di relatori di spicco.
Gina Raglianti, Presidente dell’associazione AUSER “La Vita è Bella”, introdurrà l’evento con le sue riflessioni sull’importanza del sostegno comunitario nelle dinamiche dell’inclusione sociale.
L’Avvocato Ernesto Siclari, Garante Regionale dei diritti delle persone con disabilità, discuterà le implicazioni legali e i diritti fondamentali legati al tema della disabilità.
Il dibattito sarà moderato da Lillo Sergi, figura conosciuta nel panorama culturale locale, che guiderà la conversazione tra gli ospiti e il pubblico, assicurando uno scambio proficuo e informativo.
Inoltre, la psicologa Cinzia Barreca arricchirà la discussione con il suo punto di vista professionale sulle questioni psicologiche connesse alla disabilità e all’inclusione.
“Ci sono anch’io” si rileva quindi un’opera di grande attualità e necessità che interpella direttamente la comunità e la invita a riflettere ed agire in modo più consapevole e inclusivo.